RUBRICA "BEI MONDSCHEIN": INTERVISTA A RACHELE SALERNO, TRADUTTRICE DI "MARZAHN, MON AMOUR" DI KATJA OSKAMP
a cura di Anna Maria Ferrari
Si ricorda ai lettori che le parole evidenziate sono tutte cliccabili e permettono di aprire utili pagine web di approfondimento.

Bentornati a un nuovo appuntamento con la rubrica Bei
Mondschein – Letteratura tedesca al chiaro di luna, il primo del 2025!
Lasciamo i boschi della Turingia e le fiabe ottocentesche di Ludwig Bechstein, l'articolo sul quale potete ritrovare qui, e ci spostiamo a Berlino per parlare di un libro di letteratura contemporanea: Marzahn, mon amour – Storie di una pedicure di Katja Oskamp.
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Fonte immagine: TrendEgel.com |
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Katja Oskamp (fonte: NDR) |
Personalmente,
comprai il libro di pancia, appena uscito. La sua copertina rosa
shocking e il nome di uno dei quartieri di Berlino mi avevano
incuriosita subito, e poche righe dell’incipit erano state
sufficienti a convincermi all’istante.
L’autrice-protagonista, nel bel mezzo dei suoi quarant’anni, con un marito malato e una carriera da scrittrice che non vuole saperne di decollare, con una metafora efficace annaspa “al centro di un grande lago, senza fiato, fiaccata dalla monotonia delle bracciate”**. È in questa situazione di stallo che rovescia tutto e, seppur tra dubbi e paure, si iscrive a un corso per diventare pedicure. Ma perché proprio questa scelta? Oskamp sceglie un’attività pratica, concreta, che le permetta di staccare dall’attività mentale dello scrivere che, appunto, stenta ad avviarsi. Ottenuto il diploma va a lavorare in un salone d’estetista di Marzahn dove, oltre a prendersi cura dei piedi degli abitanti del quartiere, ascolta le storie che questi, tra pediluvi, calli e massaggi, le raccontano. Così, la storia della sua vita rimessa in discussione fa da cornice alle vicende dei suoi clienti, per la maggior parte persone anziane alle prese con malattie e solitudini di vario tipo.
Sono
storie che arrivano da un tempo in cui il mondo era diverso da quello
odierno e diversa era la tempra delle persone. La stessa Katja
Oskamp, in un’intervista rilasciata a radioeins,
spiega
quanto abbia imparato dall’ascolto dei loro racconti e quanto
l’abbiano aiutata a relativizzare e superare la sua crisi
esistenziale, piccola se confrontata con le grandi crisi attraversate
dai cuoi clienti.
Ma entriamo nel vivo del libro e della sua traduzione italiana con Rachele Salerno che, molto gentilmente, ha accettato questa intervista.
Ciao Rachele, e benvenuta! Qual è stata la tua prima impressione dopo aver letto Marzahn, mon amour e come hai deciso di impostare la traduzione?
Ciao,
Anna Maria, e grazie per avermi invitata in questo spazio. Sarò
sincera: più ancora della prima impressione che ho avuto leggendo
Marzahn,
mon amour,
ricordo le parole con cui l'editore mi presentò il manoscritto: “È
un piccolo gioiello”. Quando ho iniziato a leggerlo, ho subito
capito che non potevo che essere pienamente d’accordo.
Per me
era fondamentale impostare la traduzione in modo da preservare sia la
delicatezza che la profondità dell’originale. Tuttavia, noi
traduttori ci troviamo spesso di fronte a un dilemma: bella e
infedele o brutta e fedele? E, talvolta, sembra davvero impossibile
trovare una via di mezzo.
Il tedesco di Oskamp è essenziale, con
un ritmo rapido e un registro quotidiano punteggiato da slanci
aulici. Ogni parola è misurata e densa di significato. Il rischio,
nel cercare una traduzione troppo fedele, era di ottenere un italiano
stentato, troppo semplice, poiché la paratassi che funziona così
bene nell’originale non avrebbe necessariamente prodotto lo stesso
effetto nella nostra lingua. Ho quindi cercato di trovare un
equilibrio, mediando senza tradire troppo.
Un altro aspetto che
volevo trasmettere al lettore italiano è la struttura quasi teatrale
del testo. I personaggi entrano in scena, recitano la loro parte e
poi si ritirano. È come se, tra un episodio e l’altro, si potesse
immaginare un sipario che si alza, lasciando spazio a una nuova
ambientazione. Ogni scena ha una sua unicità, mentre lo sfondo resta
invariato, eccezion fatta per il prologo, l’episodio delle terme e
l’epilogo. Non a caso, queste parti si distinguono anche per uno
stile molto diverso.
Hai incontrato difficoltà o avuto dubbi per cui ti sei confrontata con l’autrice, Katja Oskamp? Com’è stata l’interazione con lei?
Durante
la traduzione ho incontrato diverse difficoltà, a partire dalla
scelta di come rendere il titolo: per Fußpflegerin
era meglio usare “pedicure” o “podologa”? Optando per la
prima opzione, come avrei potuto distinguere nel testo tra il
trattamento e la persona che lo esegue? Questi dubbi, però,
riguardavano quasi sempre l’efficacia della resa in italiano, e il
dialogo con l’autrice, forse, non mi avrebbe aiutato molto. Anche
se, ripensandoci, mi è dispiaciuto non aver avuto l’occasione di
confrontarmi con lei.
Non sempre, infatti, noi traduttori abbiamo
il tempo e la possibilità di interagire con gli autori dei testi che
traduciamo. Ricordo bene quanto, in altre occasioni, il confronto
diretto con chi ha ideato, immaginato e scritto un testo sia stato
fondamentale per il mio lavoro.
Qualche anno fa, ad esempio, mi
sono occupata della traduzione di un libro per bambini ricco di “nomi
parlanti” – quei nomi il cui significato è essenziale per
comprendere i personaggi o il contesto – ed era importante
adattarli per renderli comprensibili ai piccoli lettori italiani.
Alcuni non hanno posto particolari problemi di interpretazione: il
professor Karwiesel, ad esempio, nella mia versione è diventato De
Tassis. Per altri, però, il confronto con l’autrice è stato
preziosissimo.
Nel libro ci sono riferimenti a periodi storici del passato. Hai fatto un lavoro di ricerca e studio per tradurre questi brani?
A
dire il vero, il lavoro di ricerca e studio è iniziato ancora prima
di cominciare a tradurre. In genere, parto sempre documentandomi
sull’autore o l’autrice che mi appresto a tradurre. Non conoscevo
Katja Oskamp prima di leggere Marzahn,
mon amour,
quindi mi è stato molto utile approfondire la sua figura, il suo
passato da drammaturga e studentessa di teatro, per comprendere
meglio il contesto e lo stile della sua narrativa.
Successivamente,
ho letto tutto ciò che potevo su Marzahn. Confesso che, prima di
allora, non sapevo molto su questo quartiere berlinese. Pur essendo
stata a Berlino diverse volte, sempre da turista, mi mancava una
conoscenza approfondita di quella realtà. Avevo bisogno di
immergermi nel contesto, di comprendere gli stereotipi associati al
luogo, gli stessi che Oskamp si impegna a smantellare lungo tutto il
romanzo.
Anche il periodo storico è stato oggetto di studio. Per
molti termini legati alla storia e alla cultura esisteva già una
sorta di “traduzione ufficiale”, che ho potuto adottare. In altri
casi, invece, ho preferito utilizzare delle perifrasi per rendere
immediatamente comprensibile al lettore italiano ciò di cui si stava
parlando.
Dietro l’apparente leggerezza che il sottotitolo ispira, Storie di una pedicure, il libro dischiude al lettore una grande profondità che viene dal racconto delle vite dei clienti. Si tratta spesso di persone anziane da cui emergono abbandono e solitudine, ma anche dignità, forza d’animo e buon umore. Quali emozioni hai provato nel tradurre le loro storie?
È
stata un’esperienza davvero coinvolgente. Oskamp riesce a suscitare
emozioni intense semplicemente raccontando istantanee di vita
quotidiana di persone comuni, lì per una pedicure. Pur commentando
raramente gli episodi che mette insieme, riesce sempre a rendere
chiara la sua opinione, dirigendo con maestria le simpatie e le
antipatie dei lettori.
Traducendo, ho provato un ventaglio di
emozioni: tenerezza, disgusto, fastidio, commozione. Sensazioni molto
diverse tra loro, ma che l’autrice riesce a far emergere attraverso
i vari protagonisti che animano la fitta agenda di appuntamenti del
salone. Confrontandomi con altri lettori, ho avuto conferma che
queste emozioni non sono un’esperienza isolata: tutti sembrano
provare qualcosa di simile, anche se ciascuno si avvicina alla
lettura con il proprio vissuto e guarda al racconto attraverso il
filtro della propria sensibilità.
Ecco, forse questo è uno dei
pochi romanzi che ho tradotto – se non l’unico – che mi
sentirei di consigliare a chiunque, indipendentemente dalla
predilezione per un genere specifico. È davvero una commedia
umana
che parla a tutti.
Il personaggio che mi ha emozionata di più,
durante la traduzione, è stato Gerlinde Bonkat: la sua esistenza
silenziosa, eppure preziosa, una vita che sarebbe probabilmente
rimasta nell’ombra se Oskamp non avesse scelto di raccontarla.
Hai ragione, la storia di Gerlinde Bonkat ha emozionato molto anche me. Invece come hai scelto di rendere la parlata berlinese dei personaggi?
È un elemento importante del romanzo e ne abbiamo discusso subito con la casa editrice. Non ci piaceva affatto l’idea di renderlo attraverso un dialetto italiano, quindi ho scelto di tradurlo utilizzando forme più “sgrammaticate” dell’italiano, tipiche della lingua parlata.
Puoi raccontarci qualcosa sulla tua formazione, su come ti sei avvicinata al mondo della traduzione e quali sono le tue lingue di lavoro?
Qui
c’è il rischio concreto che mi dilunghi troppo, ma proverò a
sintetizzare. In un certo senso, potrei dire di aver iniziato a
tradurre già al liceo. Frequentavo il classico e mi divertivo con le
versioni di latino e greco (le chiamiamo in modo diverso, ma, in
fondo, sono traduzioni), partecipando anche ai certamina,
vere e proprie gare di traduzione.
All’università ho studiato
filosofia, e approfondire il tedesco è stata una scelta quasi
obbligata. Durante un Erasmus a Heidelberg ho affinato la conoscenza
della lingua, e nella mia tesi magistrale ho tradotto gran parte di
un’opera inedita scritta da un ammiratore di Nietzsche.
Successivamente, ho proseguito con un dottorato su Nietzsche, che mi
ha portata anche in Francia per un periodo.
In parallelo, avevo
iniziato a scrivere alle case editrici per cercare di coronare il mio
sogno di lavorare in editoria. Non avevo ancora un’idea chiara di
quale fosse il mio posto, e stranamente non avevo mai pensato di
trasformare la traduzione nella mia professione. Poi, nel 2015, è
arrivata una proposta da Rizzoli, e da allora non mi sono più
fermata. Ho iniziato traducendo principalmente saggi, per poi
dedicarmi sempre più alla narrativa.
La mia principale lingua di
lavoro è l’inglese, seguita dal tedesco e dal francese. Tradurre è
un lavoro solitario: ci sei tu, i fogli del manoscritto da tradurre,
e un documento vuoto sullo schermo del tuo pc. Ma è proprio quel
foglio bianco che, riga dopo riga, mi permette di dar voce al mio
animo creativo. È un lavoro complesso, ma incredibilmente
entusiasmante.
Qual è il tuo rapporto con la Germania e la sua lingua?
Il
mio amore per il tedesco è nato durante una vacanza a Berlino,
quando avevo tredici anni. Mentre gli altri la consideravano una
lingua aspra e troppo dura, io ascoltavo affascinata le conversazioni
sui tram e leggevo ogni scritta con il desiderio di capirne il
significato. All’università ho finalmente avuto il tempo e il modo
di studiare il tedesco, appassionandomi anche alla sua letteratura.
Grazie a ciò, ho avuto l’opportunità di vivere in Germania: dopo
un primo Erasmus a Heidelberg, ci sono tornata più volte, prima a
Friburgo, poi in Turingia, tra Erfurt e Weimar.
Ho vissuto la
Germania da studentessa e da ricercatrice, sempre per periodi
relativamente brevi, e forse questo ha limitato la mia percezione più
profonda del paese nella sua essenza. Eppure, la mia sensazione è
che la Germania sia un luogo dove si possa vivere bene, grazie alla
sua efficienza, alla sua attenzione per la qualità della vita e a un
equilibrio tra modernità e rispetto per le tradizioni. È un paese
che accoglie chi è disposto a rispettarne le regole, offrendo
opportunità e spazi per costruire una vita serena e gratificante.
Una parola tedesca che per te è sempre difficile da tradurre e perché.
Non
credo ci sia una parola specifica che trovo particolarmente difficile
da tradurre. O meglio, ce ne sarebbero tante, ma in generale penso
che una delle sfide maggiori sia rendere la facilità con cui in
tedesco si possono sostantivare gli aggettivi, anche i più astratti.
Ogni volta che ne incontro uno, mi vengono i sudori freddi. E poi,
ovviamente, ci sono i sostantivi composti, che in tedesco permettono
una precisione assoluta unita a una straordinaria incisività, mentre
in italiano spesso devono essere sciolti in perifrasi più lunghe e
articolate.
In ogni caso, credo di non dire nulla di nuovo
osservando che i veri grattacapi arrivano sempre dai giochi di
parole. In Marzahn,
mon amour,
per esempio, mi sono imbattuta in un gioco basato sulla polisemia del
termine «Star», che in tedesco significa sia «storno» sia
«cataratta», e nella combinazione «grüner Star» indica il
«glaucoma». Nell’episodio in questione, Oskamp chiede alla
signora Janusch se il suo «storno verde si sia rivelato un tody
verde durante l’intervento». I tody,
un’altra specie di uccelli, erano stati citati in precedenza.
Insomma, un nodo davvero intricato.
Per risolvere, ho deciso di
giocare sull’espressione italiana «vedere i sorci verdi»,
trasformandola nella domanda se, durante l’intervento, avesse visto
«i tody verdi». Ovviamente, c’è sempre la possibilità di
cavarsela con una nota del traduttore, ma è una soluzione che cerco
di evitare, soprattutto in un romanzo.
Ricordo ancora nitidamente
quella che penso fosse una delle prime pagine del Signore
degli Anelli,
in cui la traduttrice spiegava in una nota l’intraducibilità
dell’espressione «into the blue». Avevo dieci anni alla mia prima
lettura, e rimasi spiazzata: non avevo mai riflettuto sul fatto che
quel libro fosse stato scritto in un’altra lingua, né tantomeno
sul fatto che fosse un’opera di finzione. Quella nota aveva un po’
spezzato la magia. È per questo che, quando possibile, cerco sempre
di evitarle.
Quale autore o autrice desidereresti portare in Italia, non necessariamente di lingua tedesca?
Devo
ammettere di essere un po’ impreparata su questa domanda. È raro
che legga testi di autori emergenti non italiani. Quando vivevo
all’estero ogni tanto mi capitava, ma ora ho perso l’abitudine di
seguire le nuove uscite in inglese e tedesco, a meno che non si
tratti di autori già affermati.
Posso però dirti che sono
onorata di aver prestato le mie parole a Katja Oskamp e sono felice
che L’Orma abbia scelto di portarla in Italia. Marzahn,
mon amour
è davvero un romanzo delizioso, capace di sorprendere e conquistare
chiunque lo legga.
Un grande classico del passato che vorresti ritradurre e perché.
Che domanda difficile! Mi verrebbe da rispondere: tutti quelli che ho amato, perché non c’è modo migliore per immergersi in un testo e assaporarne ogni sfumatura. Tradurre è, per me, la forma di lettura più lenta, attenta e accurata che esista. Ogni volta che mi capita di rileggere un classico, negli ultimi anni, mi viene voglia di provare a tradurne qualche pagina. A volte lo faccio anche solo per divertimento, per poi confrontare la mia versione con quelle esistenti. Se però dovessi proprio scegliere, più che un titolo specifico mi orienterei verso due autori: Thomas Mann e Nietzsche. Di Mann mi affascina la complessità e l’eleganza della sua lingua, un vero piacere e una sfida da affrontare. Nietzsche, invece, è una scelta che sento anche affettiva, ma soprattutto lo considero un autore che rappresenterebbe una sfida costante, per la densità e la profondità del suo pensiero.
Grazie a Rachele per averci concesso la pubblicazione della sua fotografia e, soprattutto, permesso di entrare nel suo laboratorio raccontandoci l’ottimo lavoro che ha svolto su questo bellissimo libro: sono convinta che spiegare qual è il percorso che si cela dietro la traduzione di un testo sia un modo per rendere i lettori consapevoli dell’importanza del ruolo dei traduttori, offrendo una ampia panoramica sulla complessità del tradurre, che non è una mera trasposizione di parole ma la trasmissione di un mondo.Katja
Oskamp, Marzahn,
mon amour - Storie di una pedicure,
L'orma editore, 2023, pp. 144, € 16,00 - isbn:
9791254760420
Al seguente link, la scheda del libro sul sito della casa editrice:
https://www.lormaeditore.it/libro/9791254760420
© Anna Maria Ferrari
Note:
* Deutsche Demokratische Republik (Repubblica Democratica Tedesca), 1949-1990.
** pag. 9
*** pag. 115
**** pag. 27
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A proposito di nomi parlanti ricordo che nella traduzione italiana di Anime Morte di Gogol non si era cercato un equivalente ma si era messa una nota esplicativa
RispondiEliminaCiao, Rachele, e grazie di cuore! Un'intervista davvero interessantissima! Complimenti per il tuo lavoro! ⚘⚘⚘
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