RUBRICA "DALL'ULTIMO BANCO VEDEVO IL MONDO - I RACCONTI DI ANDREA": QUALE VIAGGIO VORRESTI?

 

Dall'ultimo banco vedevo il mondo 

I racconti di Andrea

 

 
QUALE VIAGGIO VORRESTI?
 
L’ultimo spazio libero nel parcheggio mi sembrò un segno del destino.
Il regionale per Milano delle sette e trentuno, proveniente da Bologna, si presentò in stazione perfettamente in orario, all’ora comunicata dal tabellone degli arrivi, ed io stavo già da cinque minuti abbondanti al binario due, ad aspettarlo a piè fermo, armato del mio bel biglietto obliterato. 
Una carrozza open space, attrezzata anche per il trasporto delle biciclette. Con me salirono due graziose ragazze: una mora, di un castano molto scuro, dal bel seno interessante, con i capelli lisci e gli occhi intelligenti e sorridenti, e la sua amica, alta, nasino all’insù da civettuola, lunga chioma corvina raccolta da elastici che riavvolgeva continuamente. Si sedettero nella fila seguente alla mia, ma dal lato opposto del corridoio centrale, in una di quelle sistemazioni predisposte per avere due posti fronte-marcia e altrettanti contro, in maniera tale da potersi guardare negli occhi; così, tranquille e rilassate, continuarono la loro fitta conversazione, fatta di conciliaboli infiniti su conoscenze, viaggi ed esperienze. Dal mio lato, di fianco a loro, un tizio sportivo, con un marcato accento milanese, baffetti corti anni Cinquanta, un trolley troppo grande e pesante per finire nella cappelliera e due ray-ban che facevano tanto stile internazionale.
Io mi ero messo da solo, in una fila contromarcia, appena dopo i cestelli per le biciclette, e li potevo tenere d’occhio tutti quanti: mure a sinistra rispetto a me, volendo usare un termine nautico, sull’altro lato del corridoio una terza ragazza, solitaria come il sottoscritto.
Il convoglio ripartì, in perfetto orario, verso Reggio Emilia, la prossima destinazione. C’era poca gente sul treno. In pieno agosto, alla mattina presto, ma non prestissimo come di solito serviva ai pendolari che già infatti avevano usufruito del servizio, del resto era logico aspettarsi che non fosse molto affollato; infatti avevo scelto apposta quell’orario, per evitare la ressa. Mi attendeva un viaggio rilassante, immerso nella bambagia dell’aria condizionata (funzionava egregiamente, per fortuna) fino a Milano Centrale, dove saremmo arrivati di lì ad un paio d’ore. Mi misi quindi un poco a guardare fuori dal finestrino la campagna scorrere e volare via come un film accelerato, e un poco a leggere le notizie da internet, sul cellulare. Mi arrivavano ogni tanto mozziconi di conversazioni delle due ragazze, mezze parole, mezze frasi, una risatina. Lontano, in fondo alla carrozza o addirittura in un’altra, ché erano tutte unite e comunicanti tra loro da collegamenti a soffietto, ogni tanto si avvertivano i forti colpi di tosse di un viaggiatore, alle prese con un malessere di chissà quale natura. 
Lentamente la mia attenzione, prima in maniera sporadica, poi con sempre maggior frequenza, si rivolse e si concentrò sulla passeggera solitaria che mi affiancava al lato opposto della carrozza. 
Minuta, teneva le gambe accavallate, anche per sostenere un corposo volume che mi parve universitario, ma non ci avrei giurato: non riuscivo infatti a leggerne il titolo sulla costa e quindi non ne potevo conoscere l’argomento. Portava i capelli corti, neri, a caschetto (quasi come la cantante dei Ricchi e Poveri) che incorniciavano un viso forse non attraente come quello della ragazza alta che sedeva più avanti, ma regolare. Gli occhi erano grandi, circondati da una montatura tonda di diametro importante, da professoressa quasi, che si appoggiava sopra un nasino a patata, lezioso però. Infilata in una salopette di jeans carta da zucchero, terminante con una gonna al ginocchio che, per il fatto che le gambe fossero incrociate, lasciava intravedere delle cosce ben tornite, il suo corpo appariva sottile, dalle forme sinuose ma appena pronunciate, sintomo di seni piccoli e glutei sodi. I piedi, invece, erano uno spettacolo: assai proporzionati, con le dita ben scalate e le unghie laccate di un bordò scuro, li teneva infilati in sandali infradito di sughero e pelle e ogni tanto li muoveva, con grazia, per riattivarne la circolazione. 
Non avrei saputo darle un’età precisa, in verità: molto più giovane di me, certamente, ma non giovanissima. Le mani sottili non presentavano rughe e anche se ci fossero state, io non riuscivo ad intravedere zampe di gallina attorno agli occhi, immersi nella lettura. Venticinque, forse trent’anni al massimo, ecco. 
Studiava. La vedevo leggere brevi periodi a bassa voce, poi fissare davanti a sé lo schienale, e ripetere meccanicamente. 
Fu lei ad attaccare bottone. 
Mi chiese se possedessi un fazzoletto di carta. Aveva starnutito poco prima, infatti, e forse per ripararsi dall’aria condizionata troppo invasiva ed evitare di prendersi un malanno, si era pure avvolta con uno scialle leggero, di pizzo. Purtroppo ne ero sprovvisto. Mi ero proposto di comprarne dal giornalaio della stazione e poi, ovviamente dimenticandomene, non ne avevo, tranne soltanto un paio, già usato e ancora da gettare. Me ne rammaricai, lei ringraziò e si rivolse alla fanciulla alta, che l’aiutò. Portavo con me, però, uno zaino con dell’acqua fresca e un paio di pacchetti di patatine e, mostrandoglieli, presi la palla al balzo e gliene offersi un poco. Sorrise, sorpresa, ed accettò volentieri con un: «Ecco, ci vorrebbe proprio, grazie!» 
Così, a metà strada, quel viaggio cominciò a prendere un senso tutto suo, importante. 
Le chiesi di lei. Studiava, in effetti, e stava preparando un esame all’università. Si rivelò più giovane di quanto pensassi: ventitré anni, quasi ventiquattro, laureata. Quello che stava facendo era per un master di formazione post universitario. 
Mi raccontò che avrebbe voluto rimanere a lavorare in quell’ambito, come ricercatrice prima, poi magari come assistente, fino alla cattedra. Ma la vedeva difficile, riuscire a fare carriera nella sua disciplina, e probabilmente riteneva di dover cercare miglior fortuna all’estero. 
Mentre l’ascoltavo, non riuscivo a distogliere l’attenzione dal suo fisico. Non era bella, devo ammettere, come la ragazza seduta oltre lei, ma la sua voce dolce, le sue mani leggere nel gesticolare, il suo petto che si sollevava tiepido, e quei piedi meravigliosi... tutto mi stava lentamente avvolgendo e circuendo, come le spirali di un serpente suadente e terribile. 
Mi rendevo lentamente conto, chilometro dopo chilometro, di non essere più in grado di staccarmi da quel dialogo e di rintanarmi nella mia fortezza, tra le mie certezze di solitario, single forse non per vocazione né per scelta, ma probabilmente per destino, e terminare così quel viaggio in sicurezza. Stavo scivolando dentro la spirale di un sentimento come non mi capitava da... da quanto oramai? Non lo rammentavo più, in quel momento. So solo che mi piaceva, mi prendeva, mi entusiasmava finanche, ed era una sensazione dolce e avvolgente. 
Lei si era avvicinata, sedendosi nel posto attiguo al corridoio centrale, e sorrideva, parlava, domandava e ascoltava di me, con una grazia che non conoscevo più da tanto, troppo tempo. 
A un certo punto la interrogai sul suo nome. 
Clara. 
Lei, di rimando, volle sapere il mio. Mi sorrise e mi diede, improvvisamente, del tu: 
«Dove scendi? A Milano Centrale?» 
«Sì».
«Poi, sei pratico di Milano, sai muoverti?» 
«Veramente... non vado mai».
«Io scendo a Milano Lambrate. Se vuoi, ti accompagno fino alla Centrale e ti do una mano. Tanto poi io, con la metro, faccio in un attimo a tornare indietro». 
«Ti ringrazio, ma... non è un disturbo esagerato per te?» 
«Ma no, figurati, anzi, guarda, ne potrei approfittare per fare un salto in una libreria che avevo programmato di visitare domani. Ma tu, non rimani qui?» 
«No. È un viaggio in giornata. Nel pomeriggio torno a casa». 
«Ah... vabbè!» 
«È così. Oggi mi sono ritagliato il tempo per venire. Non mi capita spesso. Però può ricapitare». 
«Può ricapitare, allora?» 
E mi lanciò un sorriso e uno sguardo che non ho più dimenticati.


Finale A

E così scendemmo a Milano Centrale e lei mi aiutò a districarmi tra la metro, le linee urbane degli autobus e dei tram della metropoli lombarda. 
Quando venne il momento di salutarci, fui un attimo in imbarazzo: era una vita che non chiedevo un numero e devo ammettere che mi vergognavo. Stavo per farlo quando lei mi anticipò: «Questo è il mio telefono. Quando torni, se vuoi...» 
Intorno a noi, intanto, tutto stava scomparendo: i treni, il caos della gente che andava per ogni dove, le valigie, le comitive vocianti di turisti, i bambini piangenti... 
Io stavo lì, come un’idiota, con quel pezzettino di carta in mano, il sorriso di lei che spariva tra la folla ed un cuore che aveva recuperato il desiderio e la voglia di danzare, di scalpitare, di urlare come un ragazzino. Un cuore che aveva ripreso a vivere.


Finale B

Alla stazione di Milano Centrale scendemmo tenendoci per mano. 
Il primo bacio era esploso, come una vertigine, poco dopo Lodi. 
Non lo so, mi sembrava d’impazzire. Era meravigliosa, splendida, incredibile. Non avevo mai conosciuto una persona così. 
Usciti dalla stazione, dopo aver acquistato i biglietti per la metro alle macchinette automatiche, pagandoli con la mia carta di credito, mi disse che, lì vicino, una sua vecchia zia aveva un appartamento: oh... un buco, s’intende. Ma lei lo usava poco e ne aveva lasciato le chiavi e la disponibilità alla nipote. 
«Io… credo di aver bisogno di te! Ci andiamo?» 
Passai le due ore più belle della mia vita. 
Era una donna di una grazia e di un garbo spettacolari: dolce, tenera, delicata, coinvolgente: un vero spettacolo della natura, perfetta in ogni movimento, ed io mi abbandonai alla sua pelle profumata, al suo respiro profondo, ai suoi fremiti intensi. Ne percorsi tutte le strade, le debolezze, le più inconfessabili intenzioni, conquistai le sue voglie, adorai i suoi sguardi, pregai per i suoi desideri. 
Alla fine, mi assopii per riposarmi, con la sua testa sul mio petto nudo. 
Al mio risveglio, a metà pomeriggio, non c’era più. Scomparsa, con tutto il suo charme e la sua immensa femminilità. 
Al suo posto, sul comodino, trovai il mio portafoglio, aperto, con la mia carta di credito vicino e un biglietto: «È stato facile memorizzare il codice, mentre comperavi i biglietti. Grazie per il regalo di seicento euro. Ah, la camera sarebbe da saldare…»
 
© Andrea Ronchetti

 

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