DA "LA RABBIA DEL VENTO" DI S. YIZHAR (1949)

 


"[...] Evviva la Khiza ebraica! Chi penserà mai che prima qui ci fosse una certa Khirbet Khiza la cui popolazione  era stata cacciata  e di cui noi ci eravamo impadroniti? Eravamo venuti, avevamo sparato, bruciato, fatto esplodere, bandito ed esiliato.
Che cosa diavolo ci facevamo in questo posto, per la miseria?
Girai lo sguardo attorno ma scivolò via da ovunque si posasse. Il villaggio era ormai silenzioso con le sue case abbarbicate sulla collina, nascosto qua e là da cime di alberi ritagliate dal sole in sagome cupe, immerse nella contemplazione, che scrutavano la quiete del villaggio e ne sapevano molto più di noi. Una quiete che si faceva sempre più forte e creava un'atmosfera particolare, un senso di abbandono, di angoscia per il distacco, per la casa vuota, per la sponda desolata. Onde e orizzonte vuoto. Lo strano silenzio di un corpo morto. Ma perché no? Dopotutto non era niente: una giornata un po' sgradevole e poi i nostri avrebbero messo radici qui, per molti giorni a venire. Come un albero sulla riva di un ruscello. Proprio così. I cattivi invece... Eccoli lì, erano già sui camion e tra poco sarebbero stati una pagina conclusa e voltata. Ma certo, non era nostro diritto? Non eravamo noi ad avere conquistato il villaggio oggi?
Mi sentivo su un terreno sdrucciolevole. Cercai di controllarmi. Le mie viscere urlavano. Colonialisti (urlavano), bugiardi! Khirbet Khiza non è nostra. Una mitragliatrice Spandau non potrà mai conferire alcun diritto. Oh-oh, urlavano le mie viscere. Che cosa non ci hanno raccontato sui profughi. Tutto, proprio tutto per i profughi, per il loro benessere e la loro salvezza... Naturalmente, i nostri profughi. Ma quelli che noi condannavamo a esserlo... era tutta un'altra faccenda. Duemila anni di esilio. Come no. Uccidevano gli ebrei. Europa. Adesso eravamo noi i padroni...
I muri di questo villaggio non avrebbero gridato nelle orecchie di chi fosse venuto ad abitare qui? Tutte queste immagini, le grida lanciate e quelle trattenute, l'ingenuità spaventata del gregge costernato, la resa dei deboli e il loro eroismo - l'eroismo dei deboli che non sanno cosa fare e non possono fare nulla, deboli e muti: tutto questo non avrebbe riempito l'aria di ombre, di suoni, di sguardi?
[...] Provavo un senso di sconvolgente disfacimento. Sapevo solo una cosa, come un chiodo fisso: finché le lacrime di un bambino che camminava con la madre non avessero brillato, e lei non avesse trattenuto un tacito pianto di rabbia, io non avrei potuto rassegnarmi. E quel bambino andava in esilio portando con sé il ruggito di un torto ricevuto, ed era impossibile che non ci fosse al mondo nessuno disposto a raccogliere un urlo talmente grande. [...]"
 
Dal breve romanzo "La rabbia del vento" dello scrittore israeliano S. Yizhar (titolo originale "Khirbet Khizeh", 1949), traduzione di Dalia Padoa, Einaudi, 2005 (pagine 86).

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