RUBRICA "DALL'ULTIMO BANCO VEDEVO IL MONDO - I RACCONTI DI ANDREA": A ELISABETH
Dall'ultimo banco vedevo il mondo
I racconti di Andrea
A ELISABETH
Che questa lettera ti possa giungere, mia
dolcissima Elisabeth, unico amore mio, lo so, è una speranza fallace,
un’illusione del mio spirito, una chimera.
Io, però, voglio tenere accesa nel cuore
la fiammella della speranza e mi raccomando alla Misericordia di Nostro Signore
Gesù Cristo affinché tu possa leggere le mie ultime parole. A essa, infatti, affiderò la bottiglia nella quale sto per sigillare questa
lettera, che poi getterò nell’oceano, consegnandola alle correnti.
Secondo il punto fatto al mezzogiorno di
oggi, ventisette agosto milleottocentoventisei, dovremmo trovarci circa cento e
venti miglia al traverso di Natal, città tra le più belle e floride dell’Impero
del Brasile, e io prego ardentemente anche Nostra Signora Santa Maria, Madre di
Dio, che queste acque, che stanno per essere la tomba mia e del mio equipaggio,
possano farti arrivare l’estremo messaggio che il tempo mi concede di
scriverti. La burrasca, improvvisa e tremenda, levatasi nelle prime ore del
pomeriggio di una giornata che era cominciata con un’alba meravigliosa ed una
brezza leggera da sud-sud/ovest, ci ha colto all’improvviso. La situazione è disperata, Elisabeth. È
inutile farsi illusioni: il mio destino, del mio legno e dei miei uomini, sta
per compiersi.
Alcuni, tra loro, hanno già ceduto le armi
e si rifiutano di proseguire a combattere per la sopravvivenza, preferendo
utilizzare il poco tempo che rimane loro per pregare ed affidare le proprie
anime al Signore. Non posso biasimarli. Le onde che si abbattono sulla nave
sono immense, muri cupi di un grigio piombo che spazzano la coperta, il
castello di prora, il cassero di poppa, e si portano via quanto trovano di non
ben assicurato alle murate, agli alberi: cime, attrezzature di rispetto e
purtroppo già alcuni tra i più sfortunati dell’equipaggio. Una di esse,
violentissima, ha distrutto la pala del timone. Ora è inutile anche essersi
messi alla cappa.
La nave è ingovernabile. Siamo perduti,
amore mio!
Il cielo è nero, come se nugoli di diavoli
con le loro ali da orrendi pipistrelli fossero sopra di noi, a nasconderci la
luce della speranza. Io, però, non posso cedere alla disperazione. Di questa
fregata da trentasei cannoni porto con orgoglio il comando e tu sai bene quanto
ne vada fiero. Cerco di fare il possibile e anche di più, pure l'impensabile.
Conforto gli uomini, do a quelli esausti il cambio alle pompe di sentina, mi
prodigo nell’aggottare insieme agli altri coi buglioli, concorro a mantenere
tesate le manovre correnti delle poche vele che ci sono rimaste, sull’albero di
mezzana; quelli di trinchetto e di maestra sono già caduti, spezzati come
giovani vite dal fortunale.
Tra le vele, solo la randa e la
controranda sono sopravvissute, integre ed utilizzabili. Terzarolate quanto
possibile. Belvedere e controbelvedere sono state strappate via. Non si è fatto
in tempo a calarle.
Elisabeth, ti confesso che ho l’angoscia
nel cuore. Non per me, però, ma per i miei uomini, il mio equipaggio, della cui
sorte infausta mi sento responsabile. Ho sempre accettato e sopportato in prima persona le conseguenze
delle mie scelte, ma per i mei uomini qualcun altro ha scelto per loro. Secondo
la nostra tradizione marinara, che anche tu conosci, molti sono stati arruolati
a forza, trascinati lontano dalle loro case e sbattuti in un mondo a loro
sconosciuto e ostile; tanti sono i giovanissimi. Stava a me innanzitutto, e al
corpo ufficiali, trasformarli in veri marinai, amalgamarli fino a diventare un
equipaggio forte e coeso. Ed ora, di fronte ai loro occhi perduti, mi sento
colpevole della tragica fine in cui stanno per incorrere. Le onde sono sempre
più imponenti, il vento rinforza ogni istante di più con maggior vigore e ulula
feroce con una voce possente che tutto sovrasta. Tra poco l’ineluttabile si
compirà: senza più governo, la nave è destinata ad intraversarsi ai marosi
furenti, quindi si rovescerà, cosicché tutti noi spariremo tra i flutti.
Finché ne ho la possibilità, allora, ho
voluto prendermi alcuni dei pochi minuti che mi rimangono in questa vita per
scriverti. Sono sceso nella mia cabina, sconvolta dall’uragano, ho raddrizzato
una sedia e pur con somma difficoltà sono qui, al tavolo da carteggio, con una
tremula lanterna oscillante a farmi luce, davanti ad un foglio raccolto tra il
disordine che regna sovrano intorno a me.
Dio mio! Adesso che mi accingo a parlare
di noi, mi accorgo di quante
siano le sensazioni, quanti i ricordi, i sentimenti che vorrei esprimere, e mi
manca il tempo...
Non ho più tempo, amore mio! Visto che
devo scegliere, allora, voglio ritornare con te al ricordo più bello, quello
che più potente, nitido e invincibile riemerge dal passato: il nostro primo
incontro, quel giorno che ha cambiato la mia e la tua vita per sempre.
Elisabeth, ti ricordi la prima volta che
ci siamo incontrati?
Era la festa di primavera, e il concorso
ippico che, per tradizione, ne costituiva l’attrazione principale, calamitava
l’attenzione di tutti. Io partecipavo con un bel baio di sei anni, dal
carattere fiero, che mi aveva appena disarcionato. Me ne stavo lì, in mezzo al
fango della pista, con la mia bella divisa tutta inzaccherata, quando sentii
ridere una voce. Mi hai sempre detto che, nel momento in cui mi girai, avevo
una faccia talmente infuriata che, se tu fossi stata un uomo, ti sarei saltato
addosso per darti un bel pugno sul naso. Invece, come uno stoccafisso, rimasi
lì, immobile a guardarti, basito.
È vero! Dio mio, quanto ero arrabbiato; me
lo ricordo ancora! Certo, era stata una caduta stupida, ma non tolleravo che
qualcuno ridesse di me. Quando ti ho vista, però! Dovevo essere molto buffo, lo
ammetto, con i vestiti sporchi di mota, il volto tutto lordato dal fango che
non mi ero ancora tolto. E ti guardavo, a bocca aperta, instupidito!
Oh, Elisabeth, quanto eri bella, amore
mio! I tuoi occhi azzurri, il tuo viso allegro, i boccoli biondi che
ondeggiavano al vento! Tutta vestita di un color panna, delicato ed etereo. Le
mani nei guanti bianchi, una a sorreggere l’ombrellino da sole e l’altra a
cercar di nascondere la bocca sorridente.
Non so cosa mi prese ma mi avvicinai, così
com’ero, alla staccionata, la scavalcai con un sol balzo e, tra lo scandalo di
tua madre e delle tue sorelle che ti accompagnavano, ebbi l’ardire di invitarti
al tè del pomeriggio per, come ti dissi, “Permettermi
di renderla cosciente, signorina, che anche se per i suoi gusti la persona che
le sta di fronte non sarà un eccellente cavallerizzo, ebbene, invece in cuor
suo egli sa di poterle dimostrare di essere un ineccepibile cavaliere ed un
valente marinaio! Sempre che l’augusta madre sua me lo permetta”.
Quanto ridevi! A fatica ti trattenevi! Poi
ti sei ricomposta, mi hai guardato negli occhi e i tuoi occhi... dicevano già
di sì. Tua madre, invece, mi aveva giudicato fin da subito come uno screanzato
avventuriero e un seduttore privo di ogni elementare senso dell’educazione ma,
dopo aver letto sul mio biglietto da visita chi fossi, non poté far altro che
acconsentire all’incontro di sua figlia con il rampollo di un Pari
d’Inghilterra.
Già... potenza di un cognome e di un
titolo!
A te, però, di chi fossi figlio e del
titolo nobiliare, non te n’è mai importato nulla, in fondo. E nemmeno a me.
Il mio destino, lo sentivo già prepotente
nel cuore fin da fanciullo, era di prendere il mare. Il mare... l’oceano
infinito, il mare che ti accoglie tra le sue onde, i venti di speranza e di
perdizione, le correnti dolci ed impetuose. Il mare, che chiede solo rispetto e
dedizione. Ti confesso che vacillai, quando ti conobbi. Ero sicuro che il mio
futuro si sarebbe consumato a vivere circondato dai flutti, tra bonacce e
fortunali, ma l’aver incontrato te mi aveva reso dubbioso sulle mie scelte, che
non erano più così irremovibili e sicure come in principio. Fosti tu ad
incoraggiarmi di nuovo. Con il tuo amore, la tua dolcezza, le tue parole: “Dovunque tu sarai, qualsiasi mare tu navigherai, sappi che io, che aspetto
qua il tuo ritorno, fiera di quello che fai per me e per la nostra patria, sarò
sempre vicino al tuo cuore, nelle giornate di brezza leggera e in quelle di
tempesta, nelle notti piene di stelle in mezzo alle vastità infinite e nelle
nebbie traditrici, nasconditrici di scogli e perigli. E quando affronterai il
nemico in battaglia, non cedere alla paura di non rivedermi mai più. Ecco, in
questo pendaglio c’è il mio ritratto. Così navigherò con te, dividerò con te le
tue fatiche e le tue speranze e lotterò al tuo fianco e tu, mio unico bene e
mio sposo, non ti sentirai mai solo!”
Quale marinaio poteva essere più fortunato
di me? Ho conosciuto la donna più bella e più forte che mai potessi agognare di
conoscere, e sono orgoglioso di averla avuta al mio fianco!
Ho vissuto con te poco tempo, è vero. Tra
una missione e l’altra, non ci è stato concesso di spenderci insieme quanto i
nostri cuori avrebbero desiderato, ma l’abbiamo adoperato bene, il nostro
tempo: siamo stati felici!
Tra le mie braccia ho tenuto il fiore più
splendido e profumato che potessi mai cogliere ed io non rimpiango nulla.
Non è il Destino che mi strappa da te, mio
unico tesoro, ma la mano di Dio, che sa quando tagliare le spighe di grano! E
per questo non disperarti! Non voglio che tu ceda allo sconforto, al dolore.
Sei così forte e determinata che sono sicuro che non lo farai; non lo farai
perché la nostra vita è stata piena d’amore l’uno per l’altra ed anche tu senti
che dobbiamo solo ringraziare Colui che ci ha messi vicini, a camminare
insieme.
È ora di andare. La nave ha avuto un
sussulto, più forte degli altri. Il secondo mi ha avvertito che una delle pompe
di sentina ha smesso di funzionare e altre vie d’acqua si sono aperte tra le
ordinate, nel fasciame della stiva.
In questo momento terribile, ora che ho
lasciato correre sulla carta i miei ultimi pensieri, avverto di non aver più
pesi nel cuore da portare con me, nelle profondità degli abissi. Ho quasi
finito anche l’inchiostro. Prego tu possa ricevere la mia lettera, che bagno
con le ultime gocce di china e con una lacrima che non ce l’ha fatta a rimanere
nell’animo.
Ti amo, Elisabeth.
Sir Charles Boyle, Visconte di Dungaran
Commander of HMS Intrepid
Oceano Atlantico, coste del Brasile,
nel giorno del Signore, 27 agosto 1826.
© Andrea
Ronchetti
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