RUBRICA "DALL'ULTIMO BANCO VEDEVO IL MONDO - I RACCONTI DI ANDREA": A ELISABETH

 

Dall'ultimo banco vedevo il mondo 

I racconti di Andrea

 
 
Ivan Konstantinovic Ajvazovskij, Nave nel mare in tempesta, 1858


 
A ELISABETH
 
Che questa lettera ti possa giungere, mia dolcissima Elisabeth, unico amore mio, lo so, è una speranza fallace, un’illusione del mio spirito, una chimera. 
Io, però, voglio tenere accesa nel cuore la fiammella della speranza e mi raccomando alla Misericordia di Nostro Signore Gesù Cristo affinché tu possa leggere le mie ultime parole. A essa, infatti, affiderò la bottiglia nella quale sto per sigillare questa lettera, che poi getterò nell’oceano, consegnandola alle correnti. 
Secondo il punto fatto al mezzogiorno di oggi, ventisette agosto milleottocentoventisei, dovremmo trovarci circa cento e venti miglia al traverso di Natal, città tra le più belle e floride dell’Impero del Brasile, e io prego ardentemente anche Nostra Signora Santa Maria, Madre di Dio, che queste acque, che stanno per essere la tomba mia e del mio equipaggio, possano farti arrivare l’estremo messaggio che il tempo mi concede di scriverti. La burrasca, improvvisa e tremenda, levatasi nelle prime ore del pomeriggio di una giornata che era cominciata con un’alba meravigliosa ed una brezza leggera da sud-sud/ovest, ci ha colto all’improvviso. La situazione è disperata, Elisabeth. È inutile farsi illusioni: il mio destino, del mio legno e dei miei uomini, sta per compiersi. 
Alcuni, tra loro, hanno già ceduto le armi e si rifiutano di proseguire a combattere per la sopravvivenza, preferendo utilizzare il poco tempo che rimane loro per pregare ed affidare le proprie anime al Signore. Non posso biasimarli. Le onde che si abbattono sulla nave sono immense, muri cupi di un grigio piombo che spazzano la coperta, il castello di prora, il cassero di poppa, e si portano via quanto trovano di non ben assicurato alle murate, agli alberi: cime, attrezzature di rispetto e purtroppo già alcuni tra i più sfortunati dell’equipaggio. Una di esse, violentissima, ha distrutto la pala del timone. Ora è inutile anche essersi messi alla cappa. 
La nave è ingovernabile. Siamo perduti, amore mio!
Il cielo è nero, come se nugoli di diavoli con le loro ali da orrendi pipistrelli fossero sopra di noi, a nasconderci la luce della speranza. Io, però, non posso cedere alla disperazione. Di questa fregata da trentasei cannoni porto con orgoglio il comando e tu sai bene quanto ne vada fiero. Cerco di fare il possibile e anche di più, pure l'impensabile. Conforto gli uomini, do a quelli esausti il cambio alle pompe di sentina, mi prodigo nell’aggottare insieme agli altri coi buglioli, concorro a mantenere tesate le manovre correnti delle poche vele che ci sono rimaste, sull’albero di mezzana; quelli di trinchetto e di maestra sono già caduti, spezzati come giovani vite dal fortunale. 
Tra le vele, solo la randa e la controranda sono sopravvissute, integre ed utilizzabili. Terzarolate quanto possibile. Belvedere e controbelvedere sono state strappate via. Non si è fatto in tempo a calarle. 
Elisabeth, ti confesso che ho l’angoscia nel cuore. Non per me, però, ma per i miei uomini, il mio equipaggio, della cui sorte infausta mi sento responsabile. Ho sempre accettato e sopportato in prima persona le conseguenze delle mie scelte, ma per i mei uomini qualcun altro ha scelto per loro. Secondo la nostra tradizione marinara, che anche tu conosci, molti sono stati arruolati a forza, trascinati lontano dalle loro case e sbattuti in un mondo a loro sconosciuto e ostile; tanti sono i giovanissimi. Stava a me innanzitutto, e al corpo ufficiali, trasformarli in veri marinai, amalgamarli fino a diventare un equipaggio forte e coeso. Ed ora, di fronte ai loro occhi perduti, mi sento colpevole della tragica fine in cui stanno per incorrere. Le onde sono sempre più imponenti, il vento rinforza ogni istante di più con maggior vigore e ulula feroce con una voce possente che tutto sovrasta. Tra poco l’ineluttabile si compirà: senza più governo, la nave è destinata ad intraversarsi ai marosi furenti, quindi si rovescerà, cosicché tutti noi spariremo tra i flutti.
Finché ne ho la possibilità, allora, ho voluto prendermi alcuni dei pochi minuti che mi rimangono in questa vita per scriverti. Sono sceso nella mia cabina, sconvolta dall’uragano, ho raddrizzato una sedia e pur con somma difficoltà sono qui, al tavolo da carteggio, con una tremula lanterna oscillante a farmi luce, davanti ad un foglio raccolto tra il disordine che regna sovrano intorno a me. 
Dio mio! Adesso che mi accingo a parlare di noi, mi accorgo di quante siano le sensazioni, quanti i ricordi, i sentimenti che vorrei esprimere, e mi manca il tempo... 
Non ho più tempo, amore mio! Visto che devo scegliere, allora, voglio ritornare con te al ricordo più bello, quello che più potente, nitido e invincibile riemerge dal passato: il nostro primo incontro, quel giorno che ha cambiato la mia e la tua vita per sempre. 
Elisabeth, ti ricordi la prima volta che ci siamo incontrati?
Era la festa di primavera, e il concorso ippico che, per tradizione, ne costituiva l’attrazione principale, calamitava l’attenzione di tutti. Io partecipavo con un bel baio di sei anni, dal carattere fiero, che mi aveva appena disarcionato. Me ne stavo lì, in mezzo al fango della pista, con la mia bella divisa tutta inzaccherata, quando sentii ridere una voce. Mi hai sempre detto che, nel momento in cui mi girai, avevo una faccia talmente infuriata che, se tu fossi stata un uomo, ti sarei saltato addosso per darti un bel pugno sul naso. Invece, come uno stoccafisso, rimasi lì, immobile a guardarti, basito. 
È vero! Dio mio, quanto ero arrabbiato; me lo ricordo ancora! Certo, era stata una caduta stupida, ma non tolleravo che qualcuno ridesse di me. Quando ti ho vista, però! Dovevo essere molto buffo, lo ammetto, con i vestiti sporchi di mota, il volto tutto lordato dal fango che non mi ero ancora tolto. E ti guardavo, a bocca aperta, instupidito! 
Oh, Elisabeth, quanto eri bella, amore mio! I tuoi occhi azzurri, il tuo viso allegro, i boccoli biondi che ondeggiavano al vento! Tutta vestita di un color panna, delicato ed etereo. Le mani nei guanti bianchi, una a sorreggere l’ombrellino da sole e l’altra a cercar di nascondere la bocca sorridente. 
Non so cosa mi prese ma mi avvicinai, così com’ero, alla staccionata, la scavalcai con un sol balzo e, tra lo scandalo di tua madre e delle tue sorelle che ti accompagnavano, ebbi l’ardire di invitarti al tè del pomeriggio per, come ti dissi, “Permettermi di renderla cosciente, signorina, che anche se per i suoi gusti la persona che le sta di fronte non sarà un eccellente cavallerizzo, ebbene, invece in cuor suo egli sa di poterle dimostrare di essere un ineccepibile cavaliere ed un valente marinaio! Sempre che l’augusta madre sua me lo permetta”. 
Quanto ridevi! A fatica ti trattenevi! Poi ti sei ricomposta, mi hai guardato negli occhi e i tuoi occhi... dicevano già di sì. Tua madre, invece, mi aveva giudicato fin da subito come uno screanzato avventuriero e un seduttore privo di ogni elementare senso dell’educazione ma, dopo aver letto sul mio biglietto da visita chi fossi, non poté far altro che acconsentire all’incontro di sua figlia con il rampollo di un Pari d’Inghilterra. 
Già... potenza di un cognome e di un titolo! 
A te, però, di chi fossi figlio e del titolo nobiliare, non te n’è mai importato nulla, in fondo. E nemmeno a me. 
Il mio destino, lo sentivo già prepotente nel cuore fin da fanciullo, era di prendere il mare. Il mare... l’oceano infinito, il mare che ti accoglie tra le sue onde, i venti di speranza e di perdizione, le correnti dolci ed impetuose. Il mare, che chiede solo rispetto e dedizione. Ti confesso che vacillai, quando ti conobbi. Ero sicuro che il mio futuro si sarebbe consumato a vivere circondato dai flutti, tra bonacce e fortunali, ma l’aver incontrato te mi aveva reso dubbioso sulle mie scelte, che non erano più così irremovibili e sicure come in principio. Fosti tu ad incoraggiarmi di nuovo. Con il tuo amore, la tua dolcezza, le tue parole: “Dovunque tu sarai, qualsiasi mare tu navigherai, sappi che io, che aspetto qua il tuo ritorno, fiera di quello che fai per me e per la nostra patria, sarò sempre vicino al tuo cuore, nelle giornate di brezza leggera e in quelle di tempesta, nelle notti piene di stelle in mezzo alle vastità infinite e nelle nebbie traditrici, nasconditrici di scogli e perigli. E quando affronterai il nemico in battaglia, non cedere alla paura di non rivedermi mai più. Ecco, in questo pendaglio c’è il mio ritratto. Così navigherò con te, dividerò con te le tue fatiche e le tue speranze e lotterò al tuo fianco e tu, mio unico bene e mio sposo, non ti sentirai mai solo!” 
Quale marinaio poteva essere più fortunato di me? Ho conosciuto la donna più bella e più forte che mai potessi agognare di conoscere, e sono orgoglioso di averla avuta al mio fianco! 
Ho vissuto con te poco tempo, è vero. Tra una missione e l’altra, non ci è stato concesso di spenderci insieme quanto i nostri cuori avrebbero desiderato, ma l’abbiamo adoperato bene, il nostro tempo: siamo stati felici! 
Tra le mie braccia ho tenuto il fiore più splendido e profumato che potessi mai cogliere ed io non rimpiango nulla. 
Non è il Destino che mi strappa da te, mio unico tesoro, ma la mano di Dio, che sa quando tagliare le spighe di grano! E per questo non disperarti! Non voglio che tu ceda allo sconforto, al dolore. Sei così forte e determinata che sono sicuro che non lo farai; non lo farai perché la nostra vita è stata piena d’amore l’uno per l’altra ed anche tu senti che dobbiamo solo ringraziare Colui che ci ha messi vicini, a camminare insieme. 
È ora di andare. La nave ha avuto un sussulto, più forte degli altri. Il secondo mi ha avvertito che una delle pompe di sentina ha smesso di funzionare e altre vie d’acqua si sono aperte tra le ordinate, nel fasciame della stiva. 
In questo momento terribile, ora che ho lasciato correre sulla carta i miei ultimi pensieri, avverto di non aver più pesi nel cuore da portare con me, nelle profondità degli abissi. Ho quasi finito anche l’inchiostro. Prego tu possa ricevere la mia lettera, che bagno con le ultime gocce di china e con una lacrima che non ce l’ha fatta a rimanere nell’animo. 
Ti amo, Elisabeth.

 

Sir Charles Boyle, Visconte di Dungaran 
Commander of HMS Intrepid 
 
Oceano Atlantico, coste del Brasile, 
nel giorno del Signore, 27 agosto 1826.
 
© Andrea Ronchetti

 

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